ALL’ANFITEATRO DI SUTRI IL DRAMMA DI IFIGENIA
E’andata in scena nel suggestivo Anfiteatro di Sutri “Ifigenia in Aulide” di Euripide, per la regia di Alessandro Machìa, nella versione italiana di Fabrizio Sinisi, con Andrea Tidona nel ruolo di Agamennone e Carolina Vecchia in quello di Ifigenia. Si replica il 5 agosto a Sarsina (FC) per il Plautus Festival, e al teatro La Portella di Oriolo, in Calabria, a fine agosto.
Difficile immaginare uno scenario più adatto di un anfiteatro naturale per la messa in scena di una tragedia greca, anche quando si tratta di un monumento romano quale, appunto, quello del Parco Archeologico dell’Antichissima Città di Sutri. Una cornice ideale per la rappresentazione di una delle opere più famose del teatro classico greco, l’Ifigenìa in Aulide, composta da Euripide poco prima di morire, e che a distanza di venticinque secoli continua ad ammaliare ed a turbare, grazie all’universalità dei temi trattati ed alla profondità dell’opera, in questa versione italiana curata dal drammaturgo Fabrizio Sinisi.
Per la regia di Alessandro Machìa, questa rappresentazione della compagnia teatrale Zerkalo si affida ad un allestimento essenziale; scene, costumi e luci (rispettivamente di Katia Titolo, Sara Bianchi e Giuseppe Filipponio) sono al servizio del testo, valorizzato da un cast attoriale di tutto rispetto. C’è Andrea Tidona nel ruolo di Agamennone, non più un eroe tipico dell’epica greca bensì una figura umana, debole, insicura; Alessandra Fallucchi è un’ottima Clitemnestra, e Carolina Vecchia una bravissima Ifigenia, molto efficace nel rendere l’evoluzione del personaggio, da vittima sacrificale inconsapevole a cosciente interprete del proprio destino. Non sono da meno le coriste Lorenza Molina, Irene Mori, Vanessa Guidolin; Massimo Odierna (in sostituzione, solo per la data di Sutri, di Roberto Turchetta) nel ruolo di Achille – anch’egli umano, piccolo, lontanissimo dall’eroe indomito e quasi invincibile dell’Iliade -, e Paolo Lorimer in quello di Menelao, re di Sparta, fratello di Agamennone e che, come sappiamo, ha di fatto causato la spedizione verso Troia, con l’intento di riprendersi la moglie Elena, sedotta dal giovane principe troiano Paride.
La vicenda è del resto nota: siamo nell’ambito della mitica saga degli Atrìdi che già Eschilo, in precedenza, aveva trattato nell’Orestea, l’unica trilogia completa rimastaci del teatro greco; l’Ifigenia in Aulide di Euripide, nello specifico, narra dei tormenti di Agamennone che, bloccato da venti contrari nel porto di Aulide con la flotta greca, è costretto dalla dea Artemide a sacrificare la figlia per riguadagnare il favore degli dei e poter dunque proseguire verso Troia e compiere il destino che attende i greci – sconfiggere i “barbari” troiani, riprendersi Elena e restituirla al legittimo consorte Menelao.
“Ifigenia in Aulide è una tragedia ambigua in cui, come nell’Alcesti, si mettono in scena un sacrificio e una morte che poi si riveleranno apparenti”, osserva il regista nelle sue note al testo, e questa chiave di lettura si innesta in un quadro più ampio che include i temi tipici della drammaturgia euripidea: dall’umanizzazione degli eroi (ancora dalle note di Machìa: “Emblematico, in questo senso, è il trattamento che Euripide fa di Achille, eroe demitizzato, quasi un personaggio comico, incapace di corrispondere al suo stesso mito originario; che non agisce, evita lo scontro con i soldati facendosi paladino, alla maniera dei sofisti, della persuasione e del dialogo”), dalla crisi del sacro – gli dei sono di fatto assenti, e l’indovino è ridotto al livello di un imbonitore, un ciarlatano – alla fragilità delle figure umane, qui incentrata sul tormento di Agamennone, dilaniato tra l’ambizione di potere e l’incapacità di obbedire ai dettami della dea.
In piena coerenza con lo spirito dell’opera, l’allestimento mira a “far emergere la violenza che abita il testo e le contraddizioni di personaggi che Euripide presenta come <umani troppo umani>; la loro inadeguatezza al mito, l’abisso del privato al di sotto del mascheramento della parola pubblica, l’ambizione, la doppiezza. Tutto è ambiguo, apparente, a cominciare dal dialogo iniziale tra Menelao e Agamennone, da cui emergono due figure deboli, mediocri e velleitarie, che si scambiano accuse dicendo la verità l’uno dell’altro. Euripide crea una tensione tra il mito e la realtà, utilizzando il primo come mascheramento della seconda.”
Avvolto da questo turbinio di menzogne ed insicurezze, pavide reazioni umane agli alti temi del dovere, del potere, del rispetto del volere degli dei, lo spettatore assiste nel corso della tragedia all’evoluzione del personaggio di Ifigenia, attirata ad Aulide con l’inganno (lei, insieme alla madre, raggiunge Agamennone convinta di celebrare le nozze con Achille); una volta scoperto il suo destino, Ifigenìa ha una prima reazione naturale di paura e di rifiuto, implorando il padre di risparmiarla; poi, posta di fronte all’ineluttabile (“è terribile ciò che devo fare, ma è terribile anche non farlo”, sono le parole di Agamennone), “decide di sacrificarsi, di accettare e addirittura di volere il destino che è stato scelto per lei dal padre (…) Accettando e decidendo la sua morte Ifigenia si individualizza, esce dall’indistinzione diventando <qualcosa> nella morte imminente, un comandante lei stessa, sollevando allo stesso tempo il padre amato dalla piena responsabilità del sacrificio.”
La tragedia diviene poi dramma, perché al momento del sacrificio la giovane scompare e viene sostituita da una cerva; nel finale (considerato spurio, forse di fattura bizantina) c’è un araldo che racconta l’accaduto e questo allestimento si basa sull’ipotesi che “a raccontare della sostituzione di Ifigenia con una cerva non fosse un messaggero ma il deus ex machina della dea Artemide”. Il racconto è dunque affidato ad una giovane Straniera velata, interpretata sempre da Carolina Vecchia, “in modo da suggerire un cortocircuito emotivo (la voce della Straniera è la stessa voce che il pubblico ha ascoltato per più di un’ora, e solo il volto è interdetto dal velo) e allo stesso tempo svelare la natura convenzionale del deus ex machina euripideo; quest’ultimo è suggerito peraltro da una battuta cruciale di Clitemnestra nel finale, quando dice: «come non dire che queste sono solo favole senza fondamento per farmi smettere di piangere a lutto per te?». Poco importa se la giovane si è davvero salvata all’ultimo istante, il tragico si è già pienamente dispiegato nella sua natura inemendabile, ed è passato all’interno della coppia, nella sfera borghese, segno di come la tragedia euripidea si sfaldi durante il suo farsi e annunci quasi il dramma borghese.”